Tablet aziendale, agenzia investigativa, falsa presenza e licenziamento

I device informatici sono, oramai da tempo, strumenti con cui la maggior parte dei lavoratori ha prevalentemente a che fare.
La regolamentazione da parte del datore di lavoro circa il loro utilizzo è tema sempre attenzionato, perché, con l’innovazione tecnologica, i dati che si possono ricavare – direttamente, indirettamente e, se vogliamo, anche casualmente – sono numerosi, intersecandosi tra loro tematiche giuridiche rilevanti sia in ambito di pura gestione del rapporto di lavoro sia per quanto riguarda la privacy.
Nelle nostre legal news ne abbiamo parlato in più occasioni, richiamando, in particolare, l’importanza di dotarsi di policy aziendali e di fornire informative adeguate al trattamento dei dati.
Oggi diamo conto di una recentissima ordinanza della Corte di Cassazione, la n.4936 dello scorso 25 febbraio.
Il caso affrontato riguarda la valutazione della legittimità del licenziamento intimato ad un dipendente addetto alla distribuzione del gas che, tramite il tablet fornito dal datore di lavoro per rendere la prestazione, ha attestato falsamente la sua presenza al lavoro.
La vicenda trae origine da un accordo sindacale che aveva innovato la modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, prevedendo che l’operatore partisse e tornasse direttamente da e presso la sua abitazione, senza quindi recarsi in azienda.
La concessione del tablet era poi avvenuta, a seguito di successivo accordo aziendale, sul presupposto che, accedendo tramite tale strumento al portale aziendale, il lavoratore inseriva i dati relativi ai lavori svolti ed i relativi risultati.
Tramite controlli commissionati ad una agenzia investigativa, l’azienda ha riscontrato che l’operatore, anziché svolgere le attività risultanti dai dati da lui inseriti con il tablet, si recava in locali pubblici, utilizzava l’autovettura aziendale non per scopi lavorativi lasciava il posto di lavoro prima della conclusione dei lavori.
Di conseguenza, il lavoratore era stato licenziato per avere falsamente attestato la sua presenza in servizio inserendo i relativi dati tramite il tablet.
Nel contestare il provvedimento espulsivo il dipendente ha lamentato la violazione dello Statuto dei Lavoratori, adducendo che l’azienda avrebbe eseguito controlli “occulti” sia tramite l’agenzia sia ricorrendo ai dati recepiti tramite il device.
I giudici di primo e secondo grado hanno respinto l’impugnazione.
Con l’ordinanza n.4936/2025 la Cassazione ha confermato la decisione di merito.
Circa i dati tratti dal tablet, i giudici di legittimità hanno precisato che il device, per come utilizzato, non rileva come strumento di controllo ai sensi dell’art.4 dello Statuto dei Lavoratori, ma come mezzo utilizzato dal lavoratore per fornire informazioni false: i dati inveritieri non sono, quindi, l’esito di un controllo occulto, bensì elementi di confronto con le diverse e, soprattutto, reali evidenze ottenute tramite l’operato degli investigatori.
Quanto alle investigazioni, né è stata affermata la validità perché concernenti l’attività svolta dal lavoratore anche di fuori dei locali aziendali e finalizzata a verificare condotte penalmente rilevanti o attività fraudolente suscettibili di recare danno all’azienda.
Più precisamente, la Cassazione ha chiarito che “la condotta tenuta del ricorrente è stata connotata da frode idonea a conseguire indebiti arricchimenti a danno della società datrice di lavoro. Dunque, si è trattato di comportamenti fraudolenti, fonte di danno per la società datrice di lavoro. Tanto basta a ritenere legittimo e giustificato il ricorso all’agenzia investigativa”.