L’appalto nel Decreto PNRR tra nuove regole ed incertezze applicative
La materia degli appalti è da sempre oggetto di grande attenzione da parte del Legislatore ed ha subito nel corso degli anni numerose modifiche, tutte orientate in una direzione precisa: rafforzare le tutele dei lavoratori.
È nel solco di questa evoluzione che sono state introdotte importanti novità con il decreto PNRR (D.L. n. 19/2024), entrato in vigore il 2 marzo, il quale si pone in continuità con il nuovo Codice degli Appalti (D.Lgs n. 36/2023, che ha sancito l’obbligo per le stazioni appaltanti di indicare il contratto collettivo applicato al personale dipendente impiegato nell’appalto).
Il decreto PNRR è intervenuto sul D.Lgs n. 276/2003, introducendo all’art. 29, tra le varie modifiche, il comma 1-bis che prevede per gli appaltatori ed i subappaltatori l’obbligo di riconoscere al personale impiegato nell’appalto un trattamento economico non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente applicati nella zona e nel settore connesso all’oggetto dell’appalto.
Le finalità di questa modifica sono evidenti: da un lato, evitare che l’appalto costituisca uno strumento per ridurre impropriamente il costo del lavoro mediante l’applicazione di accordi collettivi poco coerenti con le attività appaltate; dall’altro, ridurre la concorrenza sleale, impedendo fenomeni di dumping da parte di aziende che concorrono per l’aggiudicazione di un appalto.
La formulazione della norma, tuttavia, lascia spazio a diverse incertezze interpretative e, di conseguenza, applicative, di non poco conto che di seguito sintetizziamo.
Chi sono i lavoratori interessati?
La disposizione cita, testualmente, il “personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nell’eventuale subappalto”: la formulazione si riferisce, quindi, a tutto il personale che svolge attività lavorativa nell’ambito dell’appalto a prescindere dalla tipologia contrattuale.
In questo senso, quindi, accanto ai lavoratori dipendenti, devono intendersi ricompresi, ad esempio, anche i lavoratori somministrati, i distaccati ed i collaboratori.
La norma introduce l’obbligo di applicare integralmente uno specifico contratto collettivo?
No: l’art. 29 fa espresso riferimento al solo trattamento economico contenuto nei contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente applicati nella zona e nel settore connesso all’oggetto dell’appalto.
Le aziende possono quindi continuare ad applicare la contrattazione collettiva in uso, con il vincolo però di adeguare i trattamenti economici, se inferiori.
Mancano tuttavia indicazioni su come possa essere attuato il coordinamento tra il contratto applicato ed il differenziale economico eventualmente da riconoscere.
Ciò soprattutto se si considera che gli appaltatori, quali datori di lavoro, spesso aderiscono ad associazioni di categoria che pongono loro vincoli contrattuali che necessitano di essere rispettati.
Come individuare la contrattazione collettiva di riferimento?
Le modalità non sono agevoli. Difatti, se il concetto di ‘settore’ pare essere più facilmente identificabile, anche in ragione del campo di applicazione indicato nei CCNL, lo stesso non può dirsi per quello di ‘zona’.
Inoltre, non mancano criticità anche con riferimento alle ipotesi di subappalto.
Il più delle volte, infatti, il subappalto riguarda attività settoriali e diverse da quelle oggetto dell’appalto; pertanto, applicare la contrattazione collettiva maggiormente rispondente all’oggetto dell’appalto e non del subappalto rischia di generare conseguenze difficilmente sostenibili da parte delle aziende, che si troverebbero così di fronte ad una vera e propria forzatura.
L’auspicio è che, trattandosi di un decreto legge, la legge di conversione fornisca i chiarimenti indispensabili per garantire una corretta, adeguata e funzionale applicazione delle novità introdotte.