Il licenziamento dopo il Jobs Act – parte prima
Con il D.Lgs 4 marzo 2015, n. 23 è entrato in vigore un nuovo regime di tutela in caso di licenziamento illegittimo che trova applicazione nei confronti dei lavoratori assunti a decorrere dal 07.03.2015 con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con qualifica di operaio, impiegato o quadro (per l’ambito di applicazione del contratto a tutele crescenti si veda l’articolo pubblicato il 29.07.2015).
La disciplina in questione è altresì applicabile nel caso:
- di conversione, successiva all’entrata in vigore del Lgs. n.23/2015, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
- in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del Lgs. n. 23/2015, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300: ciò anche per i lavoratori già in forza alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n.23/2015.
Il D.Lgs. n.23/15 ha previsto in via generale una tutela meramente indennitaria parametrata all’anzianità di servizio, divenendo residuale l’ipotesi della reintegrazione.
E’ stato altresì previsto che ai licenziamenti disciplinati dal D.Lgs n.23/2015 non si applica, dal punto di vista processuale, il rito Fornero.
In questo articolo affronteremo le fattispecie del licenziamento disciplinare e del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e la tutela in caso di vizi formali e/o procedurali: nella prossima pubblicazione esamineremo il licenziamento discriminatorio e i casi di nullità, la revoca del licenziamento, l’offerta di conciliazione, le modalità di calcolo dell’anzianità di servizio e le modifiche apportate alla disciplina dei licenziamenti collettivi.
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
Non sono mutati i presupposti per intimare il licenziamento, che può quindi essere disposto per un comportamento che non consente la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro (cd. giusta causa) ovvero per un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (cd. giustificato motivo soggettivo). Sono, invece, cambiate le conseguenze nell’ipotesi in cui sia accertata l’illegittimità del licenziamento.
In via generale, la nuova norma stabilisce che, qualora non ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità. L’indennità non costituisce imponibile previdenziale.
Il giudice quindi non ha più alcuna discrezionalità nel modulare l’indennità tra un minimo e un massimo, dovendo limitarsi ad applicare una formula aritmetica.
In deroga alla regola generale, qualora “sia dimostrata direttamente in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro:
a) alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro;
b) al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro; l’indennità non può comunque essere superiore a 12 mensilità;
c) al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza l’applicazione di sanzioni per l’omissione contributiva.
In luogo della reintegrazione, il lavoratore può optare per il pagamento in proprio favore di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR: il lavoratore deve effettuare tale richiesta, che determina la risoluzione del rapporto di lavoro, entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia giudiziale ovvero dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione della pronuncia.
Ha destato e, verosimilmente, continuerà a suscitare dibattiti interpretativi il concetto di fatto materiale rispetto alla sua distinzione dal fatto giuridico, già propostosi dopo la riforma Fornero: per un approfondimento si veda la news del 13.11.2015. Altro argomento di discussione riguarda l’onere probatorio.
Il datore di lavoro continua a dover provare l’esistenza dei fatti giustificativi del recesso affinché ne sia dichiarata la legittimità. Tuttavia, qualora il licenziamento risulti ingiustificato (perché sproporzionato rispetto all’infrazione o perché manchi la prova dei fatti posti a suo fondamento) si pone il problema di individuare la sanzione applicabile: secondo la lettera della norma qualora il lavoratore dimostri direttamente in giudizio la non sussistenza del fatto addebitatogli (a parere di alcuni addirittura senza poter far valere un fatto positivo contrario o ricorrere alle presunzioni) avrebbe diritto alla tutela reintegratoria; diversamente il datore di lavoro resterebbe esposto solo al pagamento dell’indennità risarcitoria.
Depone in tal senso quanto riportato nella relazione illustrativa presentata dal Governo dove si legge che
fermo restando l’onere della prova a carico del datore di lavoro rispetto alla legittimità del motivo addotto per il licenziamento, l’onere della prova rispetto alla insussistenza del fatto materiale contestato è in capo al lavoratore.
Tale soluzione ha spinto parte della dottrina a dissentire da quella che è l’interpretazione letterale, argomentando che la nuova norma non costituisce una deroga implicita alla regola generale enunciata dall’art. 5 L. 15.07.1966, n. 604, per cui l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo spetta sempre in capo al datore di lavoro.
Si segnala che con riferimento alle imprese di piccole dimensioni (art. 18, comma 8 L. 20.05.1970, n. 300: non più di 15 dipendenti, ovvero non più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, nell’unità produttiva o nel medesimo comune oppure non più di 60 dipendenti nel territorio nazionale) trova applicazione esclusivamente la disciplina generale.
Conseguentemente, in caso di illegittimità del licenziamento, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità in misura ridotta pari ad 1 mensilità (anziché 2) dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, comunque non inferiore a 2 (anziché 4) e non superiore a 6 (anziché 24).
LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
In caso di illegittimità del licenziamento si applica la regola generale con la conseguenza che il lavoratore ha diritto unicamente all’indennizzo economico previsto per il licenziamento disciplinare.
E’ stata pertanto definitivamente superata la possibilità della reintegrazione di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori nell’ipotesi in cui si accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Novità di assoluto rilievo è che per tali licenziamenti non dovrà più essere proposta la procedura preventiva di conciliazione che era stata introdotta dalla riforma Fornero all’art. 7 L. 15.07.1966, n. 604.
LICENZIAMENTO AFFETTO DA VIZI PROCEDURALI E FORMALI DIVERSI DALLA MANCANZA DI FORMA SCRITTA
Qualora il licenziamento sia stato intimato senza esplicitazione della motivazione oppure in violazione della procedura di contestazione disciplinare, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione di importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità.
Per le piccole imprese l’indennità è pari a mezza mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio e comunque non può essere inferiore a 1 e superiore a 6 mensilità.