Il danno alla privacy non è risarcibile se la lesione è minima
Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 16402/21 dello scorso 10 giugno, in conformità ai precedenti in materia.
Il caso ha origine dalle richieste risarcitorie azionate da un soggetto in relazione all’illecito trattamento dei suoi dati personali da parte di un Istituto di Investigazioni, il quale, con la cooperazione dell’INPS, aveva ottenuto la documentazione attestante la sua situazione retributiva, al fine di acquisire elementi di prova nell’ambito di un procedimento penale in cui lo stesso era coinvolto.
Il Tribunale, pur dando atto che le informazioni in questione fossero effettivamente eccedenti le finalità per cui i dati erano stati raccolti, aveva escluso la responsabilità dell’Istituto di Investigazioni, sottolineando che sarebbe stato eventualmente compito del difensore dell’Istituto oscurare i dati non rilevanti ai fini difensivi.
Il Tribunale, inoltre, aveva ritenuto non dimostrato il pregiudizio di natura non patrimoniale, essendo stata dedotta esclusivamente la violazione della normativa sul trattamento dei dati personali, senza allegare e specificare le conseguenze lesive causate dalla condotta ritenuta illecita.
In sede di legittimità è stato dedotto, tra i molteplici motivi di ricorso, il vizio di omessa pronuncia sulla richiesta di risarcimento per violazione della privacy.
In proposito, la Suprema Corte ha nuovamente affermato che <<il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 15 d.lgs. n. 196/2003 (Codice della Privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”, in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ai sensi dell’art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato>>.
Costituisce, quindi, lesione ingiustificabile non la mera violazione della normativa in materia di privacy, ma quella che offende <<in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito>>.
La Corte ha, inoltre, ribadito che il danno alla privacy (come ogni danno non patrimoniale) non sussiste in “re ipsa”, ma va provato anche attraverso presunzioni.
Per ottenere il risarcimento non basta quindi affermare la semplice lesione del proprio diritto alla protezione dei dati personali, ma occorre dimostrare le effettive conseguenze pregiudizievoli subite per effetto dell’illecito trattamento e la loro gravità.