Comporto e disabilità: attenzione al rischio di discriminazione indiretta
La Corte di Cassazione di recente ha affrontato un tema molto discusso e che è attualmente oggetto di grande attenzione: la discriminazione verso i lavoratori affetti da disabilità.
L’ordinanza è la n. 9095 del 31 marzo 2023.
Il caso trae origine dal licenziamento intimato ad un dipendente disabile per superamento del periodo di comporto previsto dal contratto collettivo nazionale applicato al rapporto di lavoro.
In primo grado il Tribunale ha ritenuto che il licenziamento rappresentasse una discriminazione diretta, connessa alla particolare condizione del dipendente licenziato, le cui assenze erano riconducibili alla sua situazione di disabilità: per il giudice, quindi, il lavoratore era stato licenziato perchè disabile.
La pronuncia di primo grado è stata confermata dalla Corte d’Appello di Milano, che, tuttavia, ha ravvisato nel licenziamento la fattispecie della discriminazione indiretta perché il datore di lavoro in realtà si era limitato ad applicare pedissequamente le diposizioni del CCNL, senza valutare se le assenze per malattia dipendessero da patologie correlate alla disabilità.
La fattispecie attiene, dunque, al concetto di “discriminazione indiretta” che, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), D. Lgs. n. 216/2003 (attuativo della direttiva 2000/78/CE), si verifica quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone portatrici di handicap, di una particolare età o nazionalità od orientamento sessuale, rispetto ad altre persone non portatrici di handicap, di altra età, altra nazionalità o altro orientamento sessuale; ciò a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Avverso tale decisione, il datore di lavoro ha proposto ricorso per la cassazione: la Corte, valorizzando la giurisprudenza comunitaria in materia di tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità, ha confermato la sussistenza di una discriminazione indiretta.
La Corte ha ricordato che la discriminazione di lavoratori disabili si fonda, oltre che sulla direttiva 2000/78/CE, anche sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, i cui artt. 21 e 26 riconoscono il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità, nonchè sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia con L. n. 18/2009.
Del resto, già con la sentenza 11.04.2013 in cause riunite C-335/11 e C337/11, HK Danimarca, prima, e con la sentenza 18.01.2018 in causa C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero, poi, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che un lavoratore disabile è maggiormente esposto al rischio di una malattia collegata al suo handicap e, di conseguenza, di accumulare giorni di assenza per malattia, raggiungendo più rapidamente i limiti massimi di cui alla normativa di riferimento.
Pertanto, una norma o un contratto collettivo che fissa lo stesso periodo di comporto per lavoratori disabili e non disabili svantaggia i primi, determinando una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità.
La Suprema Corte ha, però, tenuto a precisare che la fissazione di un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non è illegittima, dal momento che, oltre a combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare una “finalità legittima di politica occupazionale”: si tratta, però, di una scelta discrezionale rimessa al legislatore o alla contrattazione collettiva.
L’ordinanza della Corte di Cassazione esprime dei principi indubbiamente condivisibili ma non fornisce dei criteri che orientino il datore di lavoro in assenza di una legge o una disposizione collettiva specifica.
Un aiuto in tal senso può essere dato dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria nonché da contratti collettivi che, benché non applicati dal datore di lavoro, possano dare elementi di valutazione oggettivi.