Eliminazione di una clausola di prelazione statutaria nelle s.r.l.? Attenzione all’abuso di maggioranza
Poco tempo fa la Corte di Cassazione è intervenuta per chiarire quando l’abolizione della clausola di prelazione interna prevista dallo statuto di una s.r.l. può costituire abuso di maggioranza.
Precisamente, con l’ordinanza n. 4034/2024 dello scorso 14 febbraio, i giudici della Suprema Corte hanno statuito che una delibera assembleare avente ad oggetto l’eliminazione di una clausola di prelazione interna integra abuso del voto di maggioranza qualora venga accertato che i soci di maggioranza abbiano agito in modo strumentale per recare un danno ingiustificato al socio di minoranza, eventualmente con il proprio particolare e altrettanto ingiustificato vantaggio, in violazione del canone di buona fede oggettiva posto dall’art. 1375 c.c..
Nel caso in esame, una s.r.l. composta da tre soci, titolari per un terzo ciascuno del capitale sociale, aveva deliberato a maggioranza l’eliminazione dallo statuto della clausola di prelazione interna prevista per il caso di trasferimento di quote tra soci. Poco dopo, uno dei soci aveva trasferito parte della propria quota ad un altro socio, che così aveva raggiunto la maggioranza del capitale sociale.
Il socio rimasto in minoranza aveva reagito impugnando la delibera di abolizione della clausola di prelazione interna, che era stata dichiarata invalida dal Tribunale di Roma per abuso del voto di maggioranza.
In secondo grado, la Corte d’appello di Roma aveva accolto il gravame promosso dalla s.r.l.: a sostegno della decisione, la corte territoriale aveva sottolineato che il socio, già in minoranza, sarebbe rimasto in questa condizione anche se la clausola di prelazione non fosse stata abolita. In aggiunta, la Corte aveva ritenuto che non era stata nemmeno fornita la prova della sussistenza dell’interesse personale dei soci di maggioranza all’adozione della delibera, né tantomeno della dannosità della delibera per la società.
Il socio di minoranza ha quindi proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello per ottenerne la cassazione, lamentando in particolare la violazione o falsa applicazione, per omesso esame di fatti decisivi, rilevanti in base agli artt. 2479, comma 2, n. 4), 2479-ter, 1175, 1375 e 2697 c.c., perché idonei a dimostrare l’intento dei soci di maggioranza di emarginare definitivamente dalla compagine sociale il socio di minoranza, senza consentirgli di aumentare la consistenza della propria partecipazione al capitale sociale mediante l’acquisto della quota del socio uscente.
Con l’ordinanza in commento, i giudici della Cassazione hanno ritenuto il motivo fondato e meritevole di accoglimento alla luce dei principi fissati dalla stessa giurisprudenza di legittimità nel delineare la fisionomia dell’abuso di maggioranza. Invero, secondo la Suprema Corte questo sussiste, con conseguente annullamento della delibera con la quale esso si è espresso, se “il voto non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, perché volto a perseguire un interesse personale antitetico a quello sociale, oppure se sia il risultato di un’intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli (Cass. n. 27387/05; n. 15942/07; n. 15950/07; n. 23823/07; n. 20625/20; sez. un., n. 2767/23)”.
Così delineata la fattispecie di abuso della maggioranza, la Cassazione ha poi precisato che la questione decisiva nel caso di specie consiste nello stabilire se il ricorrente, sul quale grava il relativo onere, abbia o meno fornito la prova dell’abuso lamentato.
A questa domanda la Corte d’appello aveva dato risposta negativa, perché, secondo i giudici del gravame, quel socio era già di minoranza e tale sarebbe rimasto anche se la clausola di prelazione interna non fosse stata soppressa. Secondo la Cassazione, questa statuizione è tuttavia tautologica e inconferente, in quanto “effettivamente non esamina la rilevanza del vulnus provocato dalla delibera alle prerogative del socio all’interno dell’organizzazione sociale”.
La Suprema Corte ha infatti osservato che alla clausola di prelazione si è soliti riconoscere rilevanza organizzativa, vale a dire “funzione specificamente sociale, perché essa incide sul rapporto tra l’elemento capitalistico e quello personale della società, nel senso che accresce il peso del secondo elemento rispetto al primo nella misura che i soci ritengano di volta in volta più adatta alle esigenze dell’ente (Cass. n. 12370/14; n. 24559/15). È inevitabile, tuttavia, che la modifica delle regole organizzative alteri le posizioni organizzative dei soci, o anche soltanto le posizioni dei soci nell’organizzazione; in particolare, la soppressione o la modifica di una clausola di prelazione inesorabilmente si riverbera sul deterioramento delle prerogative dei soci”.
Il deterioramento delle prerogative dei soci conseguente alla abolizione di una clausola di prelazione è ancora più evidente, secondo la Suprema Corte, nel caso in cui la clausola sia stata modificata nel senso di escluderne soltanto gli effetti all’interno della compagine societaria, in quanto l’eliminazione della clausola di prelazione interna elide l’opportunità concessa a ciascun socio di acquisire la quota di un socio uscente e conseguentemente rafforzare la propria partecipazione.
Per i giudici della Cassazione occorre dunque verificare se i soci di maggioranza, con l’adozione della delibera, abbiano agito in modo strumentale per arrecare un danno ingiustificato al socio di minoranza.
Sul punto, la Corte ha ricordato che in dottrina si è sottolineato che qualora si contrappongano, tra i soci di maggioranza e i soci di minoranza, interessi entrambi negoziali o entrambi non negoziali, allora si dovrà lasciar operare la regola della maggioranza poiché si ritiene che il socio debba tollerare le limitazioni ai propri diritti che siano collegate e funzionali al miglior perseguimento dell’interesse comune della società. Diversamente, se a contrapporsi sono interessi negoziali e non negoziali, perché volti a pregiudicare o escludere il singolo socio o una minoranza di essi, allora il principio di maggioranza non riesce ad operare e ciò in quanto, ha osservato la Suprema Corte, “nel collegamento tra principio di maggioranza e il suo atto di esercizio, esce alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede”.
Alla luce di tali considerazioni, i giudici della Suprema Corte, hanno ritenuto che la sentenza impugnata non avesse dato il giusto rilievo all’interesse del socio di minoranza e alla circostanza che l’eliminazione della clausola di prelazione interna era avvenuta a ridosso (“appena diciotto giorni dopo”) della cessione di quote da parte di un socio in favore di un altro socio, che raggiunse così la maggioranza del capitale sociale. Infatti, secondo la Cassazione, “un conto è essere socio di minoranza insieme ad altri soci, ciascuno di minoranza, il che impone ai soci il raggiungimento di un accordo; altro conto è restare l’unico socio di minoranza, mentre altro socio diviene di maggioranza e quindi in grado di determinare le sorti della società”.
Per tali motivi, la Corte ha ritenuto di accogliere la censura svolta dal socio di minoranza e di cassare la sentenza impugnata, rinviando alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione l’accertamento della sussistenza in concreto di quel comportamento strumentale dei soci che, alla luce dei principi delineati, è da ritenersi idoneo ad integrare un abuso di maggioranza: in tali termini, la Corte d’appello sarà dunque chiamata a “valutare e spiegare se la successione cronologica degli eventi sia stata volta a impedire al ricorrente l’esercizio del diritto di prelazione e, in particolare, se sia stata volta a impedirgli di interferire con la vendita delle quote dell’altro socio”.