In recenti dichiarazioni, Rita Della Chiesa, figlia del generale assassinato a Palermo il 3 settembre del 1982, ha ribadito quanto già espresso in precedenza sulla ragione dell’omicidio: un “favore fatto a un politico” (riferibile al defunto  Giulio Andreotti).  Il figlio di Andreotti, Stefano, è intervenuto assicurando che nessun astio c’era tra il padre e il generale dei carabinieri. «Accusare mio padre di un suo possibile coinvolgimento in un omicidio o di avere rapporti con la mafia è uno schiaffo alla sua memoria e alla sua storia» ha dichiarato.

Su Il Fatto Quotidiano del 2 ottobre scorso, si è registrato un intervento di Giancarlo Caselli, già procuratore della Repubblica di Palermo ed oggi in quiescenza. L’articolista ha ricordato che “la Corte d’Appello di Palermo, in sole 8 righe, ha dichiarato commesso dall’imputato – fino a primavera 1980 – il reato di associazione a delinquere con Cosa Nostra, ma estinto per prescrizione. Non per altra causa, men che mai per “assoluzione”, che se riferita a un reato commesso sarebbe un ossimoro”. L’autore ha ricordato che “nel 1984 Andreotti (fallito il tentativo di convincere Cosa Nostra a non uccidere Piersanti Mattarella …) torna in Sicilia per chiedere a Stefano Bontate e altri boss – tra cui Salvatore Inzerillo – perché l’omicidio nonostante le sue contrarie indicazioni. Con asprezza Bontate gli risponde di farsene una ragione o accontentarsi dei voti del Nord” (qui, il dott. Caselli è incorso in un errore di date o di battitura, rilevato nella rubrica Lo Spillo anche dal Foglio del 3/10: nel 1984, Bontate e Inzerillo non potevano avere incontrato Andreotti perché erano già morti da 3 anni).   Quanto scritto dal dott. Caselli è corretto. Nella sentenza del 2/5/2003, la Corte d’Appello di Palermo ha enucleato una serie di indici (consapevolezza, disponibilità, richiesta di favori, incontri, interazione, indicazione di comportamenti da seguire) che ha ritenuto: “indicativi di vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa” (così si legge in Cass. n. 49691 del 15/10/2004, pag. 87-88), precisando però che, essendo essi anteriori al 1980, era già maturata la prescrizione. Osserva la Cassazione: “In definitiva, La Corte d’appello ha ritenuto ravvisabile il reato di partecipazione all’associazione per delinquere nella condotta di Andreotti, trattandosi di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del paese ed estraneo all’ambiente siciliano”. La Corte di cassazione ha escluso che negli atti vi fosse la prova che Andreotti non avesse commesso il fatto ed ha confermato l’estinzione del reato per prescrizione. Ma la domanda che il giurista deve porsi è: quale valore va attribuito alla sentenza della Corte di appello? È effettivamente una sentenza colpevolista? Si può affermare, come fa il dott. Caselli, che “Una spregiudicata campagna innocentista pro Andreotti, camuffata da garantismo, gioca con le risultanze processuali e prende in giro i cittadini: spettacolo – di ieri e oggi – che sbeffeggia la democrazia”?

Allarghiamo lo sguardo. Per Andreotti, per il periodo antecedente al 1980, la sentenza ha dichiarato che il reato è prescritto. Vediamo allora un po’ più da vicino come opera questa causa di estinzione del reato. Ce lo dice la stessa sentenza della Cassazione del 2004 (ma la giurisprudenza è costante). La prescrizione è una mannaia che blocca il processo. Quando essa “matura” il giudice deve compiere una sola operazione: “constatare”, senza valutare, se è stata acquisita la prova “evidente” dell’innocenza dell’imputato, dal momento che, soltanto in presenza di questa situazione, la decisione di assoluzione nel merito deve prevalere su quella di prescrizione. In nessun caso, il giudice può assumere nuove o ulteriori prove dedotte a suo favore dall’imputato. Anche se con il ricorso per cassazione l’imputato avesse affermato che il giudice non ha assunto prove a sé favorevoli dimostrative della sua innocenza, la Cassazione ha le mani legate e non può annullare con rinvio al giudice di merito per la valutazione delle prove che erano state indicate dal ricorrente. La sentenza di non luogo a procedere, come dice il codice “ha forza esecutiva”, cioè, è la disciplina  del caso concreto, ma non costituisce “giudicato”, la cui forza si riflette all’esterno verso tutti, come una legge.  Vale molto meno, e lo vediamo nel sistema processuale a proposito dell’efficacia delle sentenze penali in altri processi, amministrativi o civili, che, per effetto del giudicato, è riconosciuta solo alle sentenze di assoluzione/condanna pronunciate in dibattimento, e non a quelle di proscioglimento per qualsiasi causa. Questo è ciò che si è verificato nel processo Andreotti. Il convincimento espresso dalla Corte di appello circa la colpevolezza dell’imputato nel contesto della sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione resta solo il giudizio della Corte, e non è idoneo a diventare giudicato (e lo vedremo oltre). Capisco che qualcuno possa obiettare: “Siamo alle solite, per alcuni il diritto si applica, per altri si interpreta”, e richiamare alla memoria il «Latinorum», neologismo creato da Alessandro Manzoni per indicare il parlar dotto – in questo caso il giuridichese – quando lo si usi dinanzi a persone che non sono in grado di capirlo. È necessario allora un nuovo passaggio. Non si deve dimenticare che il processo ha riguardato un uomo con un passato politico di grande spessore, già nominato senatore a vita. Andreotti si è difeso nel processo, avvalendosi di prestigiosi difensori, e ha continuato, anche dopo il processo, la sua attività politica, unita a quella di scrittore. Una domanda è d’obbligo: se questa vicenda avesse riguardato un comune cittadino, avrebbe saputo resistere all’accusa di essere stato un mafioso? Quanti si sono suicidati per meno!

Nei suoi motivi di ricorso, la difesa di Andreotti aveva, tra l’altro, lamentato sia l’omessa valutazione della Corte di appello di una corposa memoria (4° motivo), sia la mancata assunzione di prove decisive, in tesi idonee a contrastare quelle di accusa (5° motivo). Allineata alla sua giurisprudenza – che, si ripete, fa leva sulla impossibilità di assumere nuove prove in presenza di una causa di estinzione del reato (la prescrizione) -, la Corte di cassazione ha affermato che “in presenza dell’intervenuta prescrizione, poi, questa Corte ha dovuto limitare le sue valutazioni a verificare se le prove acquisite presentino una evidenza tale da conclamare la manifesta illogicità della motivazione della sentenza in ordine all’insussistenza del fatto o all’estraneità allo stesso da parte dell’imputato”. E lo ha escluso. La Corte di cassazione si è resa perfettamente conto della scivolosità e delicatezza della situazione: se ci sono prove che potrebbero dimostrare l’innocenza dell’imputato, ma non possono essere più assunte perché il sistema non lo consente in presenza della prescrizione, non è possibile affermare che l’imputato è “colpevole oltre ogni ragionevole dubbio”! Le prove non assunte avrebbero potuto ribaltare il giudizio di colpevolezza e virare verso una assoluzione. Questo è il punto delicato della sentenza di prescrizione pronunciata dalla Corte di appello. Ecco, allora, che la Corte di cassazione sfodera il suo tecnicismo ed ha cura di rimarcare in molteplici passaggi della motivazione che, come giudice di legittimità, le è precluso ogni sindacato sulle valutazioni di fatto (il merito) compiute dalla Corte di appello. Afferma quindi che – “In definitiva, è vero che la ricostruzione prescelta dalla sentenza non è l’unica ipotizzabile, ma è tranciante, ai fini della decisione, il rilievo che essa è idonea a resistere nel giudizio di legittimità perché è stata esposta in termini logici e conseguenti, tali da renderla esente dalla manifesta irrazionalità sanzionata dall’art. 606 c.p.p., essendo invece il risultato di un ragionamento sviluppato in modo coerente”. – “La Corte di Appello, in esito a imprescindibili e quindi incensurabili valutazioni di merito, ha valutato questi fatti come processualmente rilevanti e significativi ai fini della configurabilità del reato contestato”. – “Va quindi ribadito che, poste le premesse di fatto come innanzi riportate e apprezzate dalla Corte territoriale, non può ritenersi palesemente viziata – sotto il profilo logico – la conclusione cui la medesima è pervenuta in ordine all’intera vicenda Mattarella”. – “In definitiva, il ragionamento della Corte territoriale – che naturalmente può non essere condiviso, ma che oggettivamente non è tacciabile di manifesta irragionevolezza…”. – “Ma si tratta, parimenti, di argomentazioni di merito che non scalfiscono la parte della sentenza in esame per la ragione che con esse viene prospettata una verità alternativa che è indubbiamente logica, ma che non esclude la plausibilità e razionalità di quella prescelta dalla Corte di Appello”. – “La ricostruzione dei singoli episodi e la valutazione delle relative conseguenze è stata effettuata in base ad apprezzamenti e interpretazioni che possono anche non essere condivise e a cui sono contrapponibili altre dotate di uguale forza logica, ma che non sono mai manifestamente irrazionali e che, quindi, possono essere stigmatizzate nel merito, ma non in sede di legittimità”. – “Gli episodi considerati dalla Corte palermitana come dimostrativi della partecipazione al sodalizio criminoso sono stati accertati in base a valutazioni e apprezzamenti di merito espressi con motivazioni non manifestamente irrazionali e prive di fratture logiche o di omissioni determinanti; in presenza dell’intervenuta prescrizione, poi, questa Corte ha dovuto limitare le sue valutazioni a verificare se le prove acquisite presentino una evidenza tale da conclamare la manifesta illogicità della motivazione della sentenza in ordine all’insussistenza del fatto o all’estraneità allo stesso da parte dell’imputato”.

In conclusione, a fronte di una dichiarazione di prescrizione del reato, senza un completo esame delle censure difensive mosse dall’imputato alla sentenza della Corte di appello, “la sentenza non è destinata ad acquistare autorità di giudicato sul punto, ma si esaurisce in una mera delibazione degli elementi acquisiti agli atti, ai limitati effetti dell’esclusione dell’applicabilità dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen.” (così, Cass. n. 48944/22, che richiama anteriore giurisprudenza sul punto; nello stesso senso, anche la Corte Edu secondo cui “il ricorrente è stato dichiarato sostanzialmente colpevole dalla Corte di cassazione, nonostante il fatto che l’azione penale per il reato in questione fosse prescritta. Questa circostanza ha violato la presunzione di innocenza.” (Grande Camera, 28-06-2018, G.I.EM. S.r.l. ed altri c. Italia, § 317-318 nella vicenda Punta Perotti), con la conseguenza che, in questa tipologia di decisioni, è assente una pronuncia definitiva sulla colpevolezza dell’imputato. È giusto che, per il passato, ognuno faccia le sue riflessioni, ma, se viene privilegiato il punto in diritto, non si può arrivare ad una conclusione diversa da quella qui delineata.