Dopo 135 anni di onorato servizio nei codici Zanardelli e Rocco – tralasciando la legislazione pre-unitaria – l’abuso di ufficio, previsto dall’art. 323 del codice penale, non è più reato. La legge 9 agosto 2024, numero 114, lo ha abrogato. Il reato non esiste più, cancellato dalla Storia giudiziaria con un colpo di spugna, e le condanne inflitte cadranno nel nulla. Alla base, il convincimento del Ministro della giustizia Nordio che: “L’abuso d’ufficio era ed è ancora un reato così evanescente che complica soltanto le cose senza aiutare minimamente, anzi ostruendo le indagini perché intasano le procure della Repubblica di fascicoli inutili disperdendo le energie verso reati che invece dovrebbero essere oggetto di maggiore attenzione“. Un reato, ancora secondo Nordio, dalle “conseguenze perniciose“: “la delegittimazione di molti personaggi politici che hanno visto compromessa anche la carriera politica, per indagini che si sono concluse nel nulla”. Il risultato è la paura della firma dei sindaci che a sua volta produce un “grande danno economico” per i cittadini. Cancellarlo non produrrà un vuoto di tutela, contro il malaffare “il nostro arsenale è il più agguerrito d’Europa“.

In dottrina, di converso, è stato osservato che ci sarà: “l’impunità di tutti gli abusi commessi per avvantaggiare sé stessi ovvero amici, amanti, sodali, compagni di partito o per danneggiare nemici e rivali in amore, in politica, negli affari, purché compiuti in assenza di compensi dati o promessi e di violenza o minaccia. In questa voragine vengono attratti i casi di concessione o diniego di autorizzazioni, licenze o concessioni, ma anche i casi di esercizio discrezionale del potere, come avviene nella funzione giudiziaria in riferimento al giudice e al pubblico ministero e nella funzione amministrativa rispetto a una qualsiasi attività deliberativa o valutativa. Neppure poi si trascurino gli abusi commessi mediante sfruttamento dell’ufficio: è il caso di colui che sfrutta nel proprio o altrui interesse le energie lavorative di pubblici dipendenti ovvero del medico specialista di una struttura sanitaria pubblica che distoglie i pazienti dal servizio pubblico per inviarli a strutture private.”. All’elenco si può aggiungere, per completezza, l’impunità per la violazione dell’obbligo di astensione.

La giurisprudenza si è mossa. Numerose autorità giudiziarie (Gup Locri, Tribunale Firenze, Tribunale Busto Arsizio) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale sotto diversi parametri: in particolare, per violazione della Convenzione Onu contro la corruzione. In sintesi, si sostiene che essendo obbligo internazionale dello Stato introdurre norme contro l’abuso di ufficio sarebbe illogico, contrario alla buona fede, e anche in contrasto con l’art. 97 Cost., il comportamento dello Stato italiano che abroga una norma che, se non ci fosse già, avrebbe l’obbligo di introdurre. Al momento, resta il fatto che l’art. 323 è stato abrogato ed il Presidente della Repubblica, di cui è nota la particolare attenzione sui provvedimenti che impattano con gli obblighi Unionali, ha promulgato la legge: ciò significa che non ha ravvisato palesi vizi di incostituzionalità o di contrasto con le norme internazionali.

Quindi, c’è un vuoto di tutela rispetto alle situazioni evidenziate.

In attesa della risposta della Corte costituzionale, al fine di verificare se, effettivamente, dopo l’abrogazione del reato di abuso di ufficio vi siano, e quali, situazioni che risultano sprovviste di una effettiva tutela penale è necessario tenere conto della sua giurisprudenza. “Per costante giurisprudenza di questa Corte, la configurazione delle ipotesi criminose e la determinazione delle sanzioni per ciascuna di esse rientrano nella discrezionalità del legislatore.  Gli apprezzamenti in ordine alla “meritevolezza” ed al “bisogno di pena” – dunque sull’opportunità del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa – sono infatti, per loro natura, tipicamente politici” […] “ Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono, infatti, nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela”.

La Magistratura italiana possiede una peculiarità. I magistrati non accettano che diritti che richiedono una tutela penale ne rimangano sprovvisti, sol perché manca una norma specifica. Se fosse così se ne avvantaggerebbero i soggetti dotati di maggiori risorse economiche a scapito dei più deboli.

È stato così per l’inquinamento ambientale. In mancanza di una specifica normativa, attuata solo a partire dal 1976 con la Legge Merli per gli scarichi industriali, furono i Pretori che si assunsero il compito di tutelare la collettività dai veleni immessi nell’ambiente dalle industrie. La tutela delle acque si avvalse di una piccola norma introdotta nel 1927 che vietava: “di gettare od infondere nelle acque materie atte ad intorpidire, stordire od uccidere i pesci e gli altri animali acquatici”. Il divieto era punito con la pena dell’ammenda da lire 200 a lire 1000, poi elevata nel 1938 a quella congiunta dell’arresto e dell’ammenda, ma quello che faceva la differenza era che la sanzione aveva natura penale e consentiva al Pretore di emettere un decreto di sequestro. La parte più sensibile della magistratura utilizzò questa leva, e interi complessi produttivi inquinanti furono sequestrati e restituiti solo dopo che erano cessate le immissioni velenose. Lo stesso accadde per gli inquinamenti dell’atmosfera cagionati da fumi o rumori molesti. Anche qui le norme utilizzate furono piccole contravvenzioni, come l’articolo 674 del codice penale, punite lievemente, ma che, per essere di natura penale, consentivano il sequestro dell’impianto nocivo.

E che dire dell’utilizzo che fu fatto dell’articolo 219 del codice Rocco in funzione di prevenzione dei reati? E dell’articolo 251, che consentiva ai Pretori di emettere un mandato di arresto per i reati di competenza del tribunale, efficace per venti giorni, utilizzato per supplire all’inerzia di alcune procure?

Ancora, per combattere il terrorismo prima e la mafia dopo, la giurisprudenza “creò” la figura del concorso esterno nel reato associativo.

Sul versante civilistico, per arginare lo strapotere degli industriali a scapito dei lavoratori che, vivendo della paga non potevano affrontare lunghi processi, i Pretori, per reintegrare nel posto di lavoro i lavoratori licenziati per discriminazione, fecero ricorso all’articolo 700 del codice di procedura, pensato per altro.  

Qualche volta, per l’esigenza di ovviare a situazioni difficili, si andò “oltre”, come quando si configurò il reato di aggiotaggio a carico dei proprietari che tenevano sfitto l’immobile, ma tutto sommato nessuno ha mai negato la meritoria opera di supplenza svolta dalla magistratura in periodi storici complessi.

La domanda che ci si deve porre, a questo punto, è se vi sia nel sistema una norma che possa prendere il posto dell’abrogato art. 323 ed assicurare una tutela a diritti meritevoli.

Ad avviso dello scrivente vi è una norma, avente vis espansiva, che può essere utilmente impiegata per contrastare i più gravi fenomeni di turbamento dei diritti politici del cittadino.

Il titolo I del libro II del codice Rocco prevede una divisione interna in cinque capi: delitti contro la personalità internazionale dello Stato (artt. 241-275); delitti contro la personalità interna dello Stato (artt. 276-293); delitti contro i diritti politici del cittadino (art. 294); delitti contro gli Stati esteri, i loro Capi e i loro rappresentanti (artt. 295-300); disposizioni generali e comuni ai capi precedenti (artt. 301-313). Uno spazio esiguo è accordato alla tutela dei diritti politici del cittadino: un solo articolo, il 294, con formula ampia punisce: “Chiunque con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l’esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.”

Dalla Relazione ministeriale sul progetto di codice penale si ricava che, anche il vulnus arrecato ai singoli cittadini nei diritti fondamentali, come quelli elettorali, strettamente attinenti allo status della persona, è considerato lesivo degli interessi fondamentali dello Stato che comprendono “anche tutto quel complesso di interessi politici fondamentali, di altra indole, rispetto ai quali lo Stato intende affermare la sua personalità. Codesti interessi, attraverso sfere gradatamente più ampie, vanno dalla saldezza e dalla prosperità economica al migliore assetto sociale del Paese, e persino al diritto di conseguire e consolidare quel maggior prestigio politico, che allo Stato possa competere in un determinato momento storico”

L’articolo 294 è stato, prevalentemente,  utilizzato dalla giurisprudenza per sanzionare illeciti realizzati in materia elettorale. Si ricordano:

  • Sez. 1 – , Sentenza n. 42512 del 17/06/2022 Ud.  (dep. 09/11/2022 ) Rv. 283738 – 0, in tema di ostacolo alla raccolta di firme per un referendum
  •  Sez. 1, Sentenza n. 20755 del 27/10/2017 Ud.  (dep. 10/05/2018 ) Rv. 273118 – 0, in tema di induzione di un eletto ad una carica pubblica a dimettersi
  • Sez. 6, Sentenza n. 51722 del 09/11/2016 Cc.  (dep. 05/12/2016 ) Rv. 268621 – 0, che correla la norma al diritto di elettorato attivo e passivo
  • Sez. 1, Sentenza n. 11055 del 14/10/1993 Ud.  (dep. 02/12/1993 ) Rv. 197546 – 01, secondo cui la condotta del reato di attentato contro i diritti politici del cittadino (art. 294 cod. pen.) consiste nella violenza, minaccia o inganno che si traduce nell’impedimento all’esercizio di un diritto politico o nella determinazione del cittadino stesso ad esercitarlo in maniera difforme dalla sua volontà.

Nell’attuale assetto costituzionale, diritti politici sono in primo luogo quelli che permettono al cittadino di partecipare all’organizzazione ed al funzionamento dello Stato e degli altri enti di rilevanza costituzionale, come le Regioni, le Province e i Comuni, ai quali è attribuita la funzione di indirizzo politico in relazione ad un determinato aggregato di persone stanziate su una parte del territorio. Nel novero dei diritti politici rientra, sicuramente, quello di elettorato passivo configurabile in riferimento alla carica di consigliere comunale (in giurisprudenza si riscontra la fattispecie connotata dalla minaccia nei confronti di un candidato alla carica di consigliere comunale, al fine di costringerlo a ritirare la candidatura, con la prospettazione del rigetto della domanda di assunzione, dallo stesso presentata, quale giardiniere del Comune). Ma, in essi vanno ricompresi anche i diritti attribuiti al cittadino come appartenente alla polis, cioè alla comunità organizzata. Quelli, per intenderci, che derivano dalle fonti pubbliche.

Sotto l’aspetto sistematico della norma, occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il delitto previsto dall’art. 294 cod. pen. è reato di evento, ancorché la rubrica faccia riferimento alla differente nozione di “attentato” (la quale costituisce una anticipazione della soglia dell’intervento penale rispetto all’effetto lesivo prodotto dall’evento); e che esso costituisce un titolo generico e sussidiario rispetto ai reati specificamente previsti in materia elettorale di fronte ai quali, qualora ne  ricorrano gli estremi, è destinato a cedere in virtù del principio di specialità (Sez. 1 – , Sentenza n. 16381 del 20/12/2018 Cc.  (dep. 15/04/2019 ) Rv. 275331 – 0; Sez. 1, n. 11835 del 26/6/1989, Celentano, Rv. 182018). Ragione, per cui, nella sua vigenza il reato di abuso di ufficio si presentava come norma speciale rispetto al 294: da qui, la quasi-nulla applicazione dell’articolo 294 al di fuori della sfera elettorale.

In ordine agli elementi costitutivi della fattispecie, i concetti di violenza e minaccia, non pongono concreti dubbi. È sufficiente fare riferimento alla costante giurisprudenza.

La violenza può essere fisica, intesa come energia fisica esercitata direttamente sulla persona, o morale, purché sussista la idoneità a coartare la libertà di azione del soggetto;

la minaccia è la prospettazione di un danno ingiusto  e può essere diretta, se rivolta alla vittima, o indiretta se pronunciata in sua assenza, essendo solo necessario che questa ne sia venuta a conoscenza anche tramite altre persone, a condizione che ciò avvenga in un contesto per il quale si ritenga che l’agente abbia avuto la volontà di produrre l’effetto intimidatorio; simbolica quando si estrinsechi attraverso immagini, segni, oggetti o azioni che abbiano insiti in sé non solo la capacità di evocare ciò che si è inteso minacciare, ma anche un “surplus” intimidatorio derivante proprio dalla modalità simbolica utilizzata;

la nozione di “inganno” deve consistere nel ricorso a un mezzo fraudolento che sia idoneo a esercitare sul soggetto una pressione di tale intensità da indurlo a determinarsi, nell’esercizio di un diritto politico, in modo contrario alla sua reale volontà; sicché non bastano, a tal fine, la semplice suggestione e neanche le promesse chimeriche, le forzature dialettiche, le prospettazioni incomplete o tendenziose di situazioni nazionali o locali, le interpretazioni faziose di eventi.

Dopo questo inquadramento sistematico, è sul concetto di diritti politici che occorre focalizzare l’attenzione.

I diritti politici, unitamente ai diritti civili, fanno parte dei diritti umani, ma, mentre i primi tutelano e stabiliscono il rispetto delle libertà individuali (pensiero, coscienza,  riunione), i secondi attengono, come anticipato, a quei diritti che sorgono dalla cittadinanza: l’elettorato attivo; l’elettorato passivo; i diversi referendum; la libertà di organizzazione in partiti; il diritto di petizione; il diritto di accedere agli uffici pubblici e trovano la loro fonte diretta negli articoli da 48 a 51 e 97 della Costituzione.

Prescindendo dalle norme che riguardano il funzionamento dello Stato e il rapporto di elettorato, di particolare interesse per la tutela dei cittadini si rivela l’art. 51 Cost., inserito nel Titolo IV Rapporti Politici, secondo cui: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica. Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”.

Il principio di uguaglianza, posto in via generale dall’articolo 3, si riverbera sull’accesso ai pubblici uffici riconosciuto, senza distinzioni e privilegi, a Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso.

Anche la partecipazione ai concorsi indetti per l’accesso ai pubblici uffici è vista nella Carta come un diritto politico, al pari dei diritti elettorali. Un diritto politico che si affianca e completa l’articolo 35, dando concretezza al principio fondamentale di una Repubblica fondata sul lavoro, e che, nell’alveo delle norme che ne disciplinano l’accesso, fonda un diritto soggettivo dell’interessato (a differenza di quanto succede nel lavoro privato in cui, salvo il collocamento obbligatorio, l’iniziativa privata è libera di determinarsi nella costituzione dei rapporti di lavoro, l’unico limite derivando dal dovere di non svolgersi in contrasto con l’utilità sociale).

È inutile, ai fini che qui interessano, ricordare che l’ambito di applicazione dell’articolo 51 è stato sempre ricondotto nell’ottica della lunga battaglia per ottenere una equilibrata partecipazione delle donne e degli uomini nelle istituzioni e nei luoghi decisionali. Questi concetti appaiono ormai scontati dopo la modifica dell’articolo 51 con la legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1. Ciò che rileva in questa sede è che la Carta ha superato il fenomeno antico della vendita delle cariche che consentiva a chi disponeva di cospicue fortune di acquisire uffici prestigiosi, creando un circolo vizioso che portava all’immobilismo sociale, ed anche all’ingiustizia. Come scriveva Michel Foucault in Surveiller et punir: Naissance de la prison, 1975: «È perché, per ragioni di tesoreria, il re si attribuisce il diritto di vendere uffici di giustizia, che gli “appartengono», che si trova davanti dei magistrati, proprietari delle cariche, non solo indocili, ma ignoranti, preda di interessi, pronti al compromesso.».

Se l’articolo 51 disegna la cornice culturale e l’obiettivo da perseguire, sul versante della formazione del rapporto di lavoro pubblico è l’articolo 97, comma 3, della Costituzione a stabilire che: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Analoga previsione è prevista per l’accesso alle magistrature (articolo 106).

Il concorso pubblico, nella tesi del costituente, è lo strumento idoneo ad attuare l’uguaglianza dei cittadini ed a selezionare i più meritevoli. L’ordinamento ha dato attuazione all’articolo 106 ed è, quindi, attraverso il concorso pubblico che si individuano i soggetti meritevoli di accedere agli uffici.

Corollario logico è che il principio di uguaglianza non tollera collusioni, favoritismi o manipolazione dei concorsi, ragione per cui di norma le valutazioni sono compiute da tecnici indipendenti e indifferenti rispetto ai candidati, e le tracce scritte e le domande da sottoporre ai candidati sono segretate.

Anche l’articolo 97, nei suoi primi due commi, svolge indirettamente una funzione di tutela dell’uguaglianza dei cittadini.

Nel disporre che:

I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.

Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari”,

la Costituzione protegge i cittadini da arbitri e prevaricazioni dei pubblici funzionari, in quanto solo la legge, disposizione astratta e generale, può disciplinare l’organizzazione dei pubblici uffici e i comportamenti dei singoli funzionari. Con il corollario che i comportamenti dei singoli appartenenti svolti in modo non imparziale, non vulnerano solo il singolo, ma anche il diritto dell’intera collettività a che il potere si eserciti e si svolga assicurando l’uguaglianza dei cittadini di fronte ad esso: in tal modo, l’imparzialità dell’amministrazione, nascendo dalla Costituzione, costituisce un diritto politico del cittadino.

Ad avviso di chi scrive, l’articolo 294 del Codice penale è utilmente impiegabile in molte situazioni in cui in precedenza veniva contestato l’abuso di ufficio. Vi rientrano, infatti, i casi in cui nei concorsi pubblici siano individuate astensioni non dichiarate, o condotte velatamente minacciose o ingannevoli (ad esempio nella valutazione dei titoli) impeditive a taluni candidati di concorrere per favorire altri. Oppure l’uso non imparziale del potere pubblico attraverso artifici o illecite imposizioni.

La nozione di pubblici uffici è estesa. Spetterà alla giurisprudenza selezionare i diritti pubblici e differenziarli dai diritti civici e valutare, caso per caso, quando la violazione dei diritti pubblici dei cittadini, in mancanza di una norma specifica, darà luogo ad un attentato penalmente rilevante.

L’articolo 294, nell’interpretazione offerta, può costituire un argine nei confronti delle situazioni indicate dalla dottrina (v. supra) e dalla stampa (nell’ottimo DataRoom sul Corriere di Milena Gabanelli e Luigi Ferrarella si fanno questi esempi: “Il professore che favorisce il proprio allievo in un concorso universitario. Il carabiniere che, siccome alcune ragazze extracomunitarie rifiutano di farsi fotografare in spiaggia, chiede loro, senza ragione di servizio, di esibire i documenti di soggiorno. Il pm che fa processare l’ex della sua fidanzata. Il poliziotto che manda un’ispezione nella discoteca che non ha fatto entrare suo fratello senza invito. L’assessore che, di fronte a due contemporanee richieste di comizi elettorali in piazza, ne nega l’uso alla lista avversaria e concede invece la piazza al comizio del proprio partito”), nelle quali è facile percepire un connotato di violenza morale, inganno o minaccia implicita.

Come acutamente ha affermato la Sez. F – , Sentenza n. 32174 del 25/08/2020 Ud.  (dep. 17/11/2020 ) Rv. 279877: “[…] si deve rammentare che la ingiustizia del danno può senz’altro essere ravvisata anche rispetto alla lesione di diritti politici, come avvenuto nel caso di specie, la cui lesione trova peraltro una specifica e più generale tutela penale nei delitti contro i diritti politici del cittadino di cui al capo III del Titolo I del codice penale ed in particolare nel delitto previsto dall’art. 294 cod. pen., ma che al di fuori di detta ipotesi, può assumere rilevanza penale, nella specie del delitto di abuso di ufficio, quando tale lesione consegua ad una violazione dei doveri di imparzialità e terzietà che connotano l’esercizio dei poteri dei pubblici ufficiali, in presenza degli altri presupposti della condotta afferenti il dolo intenzionale richiesto per l’integrazione del delitto punito dall’art. 323 cod. pen. Al riguardo appare opportuno richiamare a supporto di quanto si intende qui affermare, un precedente di legittimità, seppure non recente, che ha già ravvisato la ingiustizia del danno nella lesione del diritto della minoranza con riferimento al caso di un sindaco che, in violazione dell’art. 127 del R.D. 4 febbraio 1915 n. 148 e disattendendo specifiche e reiterate richieste della minoranza consiliare, aveva disposto sistematicamente la riunione del consiglio comunale in unica convocazione, anziché fissare, per la seconda convocazione, come prescritto, un diverso giorno e, in tal modo, ritenendo sempre applicabile il più elevato “quorum” di presenze richiesto per la validità della prima convocazione, aveva impedito, mediante l’allontanamento dei consiglieri di maggioranza, il raggiungimento di detto “quorum” e, pertanto, la possibilità di adottare delibere (Sez. 6, n. 2173 del 30/11/1998, Parisi, Rv. 212943)”.

La strada non è semplice, richiede attenzione e misura, e sarà la giurisprudenza a valutare la percorribilità. Non è la prima volta e non sarà l’ultima. Gli esempi non mancano.